Montalcino e dintorni
Quando Brunello non è solo un (grande) vino
Pubblicato
7 anni fail

Good news da Montalcino by Silvana Biasutti
Sono tra i pochi che si sono innamorati di Montalcino, a prescindere. A prescindere dal vino, ovviamente! Mi è capitato di chiedermi se (forse) ero l’unica, e forse addirittura ero una un po’ fessa.
Sto parlando di tempi non sospetti, per quanto mi riguarda; alludo a quando venivo chiamata “la strulla di Milano”, quella che aveva comprato quattro sassi in mezzo a boschi e olivete, lontano dal paese. Che poi non era così lontano, ma allora così pareva.
Di tutt’altro parere sembravano essere gli amici – tantissimi – che mi raggiungevano in questo luogo, da Milano, da Parigi, dall’Olanda, talvolta anche da luoghi più lontani e affascinanti. Tra tutti mi viene in mente un copywriter, uno di quelli che andavano per la maggiore a quei tempi: “quando guidi fin qui da Buoncovento, ti rendi conto del salto di qualità, con questo paesaggio quasi incredibile, tanto è bello…”. E io i luoghi – Montalcino, Camigliano, Montenero, l’Amiata – li ricordo com’erano allora e continuo a immaginarmeli così.
Be’ si tratta di tempi andati, di un’epoca in cui niente era come ora e di cui io oggi rimpiango essenzialmente il paesaggio – così folto d’alberi e misterioso – e la semplicità della gente. Una semplicità ‘colta’, soprattutto tra quelli che definivo mentalmente (e un po’ sommariamente) contadini; gente piena di angoli e spigoli, con una parlata stretta e lo sguardo vivace. Avrei conosciuto i difetti (nessuno è perfetto!) solo anni dopo e avrei imparato a rimpiangere quelli che, uno dopo l’altro, se ne sono andati, come in una ballata di Leonard Cohen.
E mentre aumentava il numero di quelli che avevo conosciuto, nel bene e nel male, da vivi, imparavo anche a vedere questa loro terra con gli stessi occhi con cui l’avevano guardata quelli che ci erano nati e che – proprio per questo – non potevano apprezzare quello che me la rendeva preziosa.
Certo un bel giorno ho cominciato a conoscere anche il vino, che rimaneva il “loro” vino, perché sì il vino era interessante, ma io bevevo piemontese, come papà, e senza mitizzare più di tanto il nettare di Bacco. I ristoranti erano pochissimi – tre per me: da Oreno (ora il Pozzo) a Sant’Angelo, da Sciame a Montalcino, dove c’era Iva, pallidissima creatrice di indimenticabili zuppe, e poi la favolosa Taverna dei Barbi, con l’immenso camino sempre acceso, anche in piena estate, pronto per arrostirvi del costoleccio, prelibatezza sconosciuta a Milano.
Ho amato i luoghi perché mi mettevano in moto la mente, in modo straordinario: non il vino, ma l’aria, faceva ubriacare, e se mi legge qualcuno dei moltissimi amici venuti qui per qualche giorno, con me, si ricorderà di certo del tumulto psicofisico che quest’aria e questi paesaggi ci scatenavano dentro. Ho passato qui una straordinaria estate al termine di una gravidanza (le mie figlie gemelle possono ben dire di aver conosciuto questa terra prima di nascere!), in una situazione che posso definire senza esitazione primordiale. In un casale senz’acqua, né (ovviamente) luce, figurarsi il telefono.
Ero immersa nelle lucciole in modo inverosimile; gli insetti erano enormi (ricordo un grosso coleottero chiamato ‘diavolo’, con antenne chilometriche), gli alberi classificati secondo l’ombra che offrivano, perciò il leccio era perfetto, mentre l’ombra del fico era considerata infausta (magari con qualche motivo), serpi immense, incredibili istrici e tassi. Una natura che andava dritta al cuore della mia fantasia. Profumi e colori, colori e visioni. Colli e campi e naturalmente vigne e olivi e immense querce che punteggiavano il paesaggio severe e bonarie.
E poi il Brunello, ma dopo, perché prima era Rosso dei vigneti, per me anche Brusco dei Barbi, e raccontavano le storie di banditi e di agguati, ma intanto c’era la minestra di pane e così sia.
Ora quando dico che sto a Montalcino, a tutti gli si accende un bicchiere negli occhi, ed è subito vino, anzi Brunello. Ma ricordo una sera a San Babila, al Gin Rosa, seduta con Franz Botré e un giovane giornalista senese, che lavorava a Milano, e loro stavano lanciando un mensile molto raffinato ed elegante – Monsieur – e Botré era rimasto colpito da come io avevo sintetizzato il senso di Montalcino e lo stile di quella (questa) campagna e mi aveva chiesto di poter usare quella sintesi per il primo articolo che da quel giornale parlava di una terra destinata a diventare mondiale e uscì con l’intervista a due grandi personaggi – Franco Biondi Santi e Francesca Colombini Cinelli – interpreti e testimoni di uno stile e di un gusto per la terra, che usciva intitolato I Colori del Brunello.
Colori capaci di parlare al cuore e alla mente delle persone, capaci di emozionare anche uno che è astemio. Forse proprio perché ho conosciuto quegli anni e li riconosco ancora, e so quanto valgono, mi scaldo tanto e mi affanno a scrivere e a dire di paesaggio, che ovviamente cambia – è sempre cambiato negli anni e nei secoli – ma che nel cambiamento deve essere capace di parlare con la stessa intensità.
Due brevi note di presentazione Sono nato a Milano nel 1956 e dal 1966 vivo in provincia di Bergamo. Giornalista pubblicista dal 1981, dal 1984, dopo aver collaborato, scrivendo di libri, cultura, musica classica e di cucina, a quotidiani come La Gazzetta di Parma, Il Giornale, La Gazzetta ticinese e Il Secolo d’Italia, mi occupo di vino. Per diciotto anni, sino all’ottobre 1997, sono stato direttore di una biblioteca civica. Continua a leggere ...

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Cara Silvana…che potere che emani…mi hai fatto sentire li’, in quei posti magici…che orgoglio e che fortuna avere per maestri due grandi: te e Franco!
Giusy
Maestra no di certo, ma questo luogo continuo a sentirlo e a viverlo a prescindere, e penso che la sua vera ricchezza sia la capacità di emozionare chi lo incontra. Poi viene il Brunello.
E dai Silvana, non farti prendere dalle nebbie e dalle melanconie invernali. Non sei certo l’unica ad esserti innamorata di Montalcino “a prescindere”, tanto per citarne qualcuno degli ultimi decenni ti ricordi Peppino de Filippo, Saul Bellow, l’editore Marotta e Albertini? E le estati con Otto Scily o i meno famosi, ma deliziosi, tanti stranieri che ogni anno tornano ai tavoli di Fiaschetteria? Montalcino ha sempre avuto un grande fascino, a prescindere, e lo mantiene.
Ma io non sono malinconica, rispetto a questa ‘esperienza’ dei luoghi, anzi la considero un vero e proprio patrimonio (come ti ho ribadito proprio davanti a un bicchiere del tuo “Brusco dei Barbi”). E’ un patrimonio per chi è in grado di capirlo e riconoscerlo come tale. Semmai la mia recriminazione riguarda proprio il pensiero che tutto ciò che non è Brunello sia sovente considerato solo di contorno. Invece non ci sarebbe il Brunello se non ci fosse (ancora prima) tutto il resto …