E’ già trascorso quasi un mese dallo svolgimento di Nebbiolo Grapes, convention internazionale dedicata al vitigno Nebbiolo, ma mi ritornano in mente alcuni interventi di personaggi chiamati a dire la loro nella sessione denominata “Il Nebbiolo visto dai protagonisti”…
Penso alle aperte dichiarazioni d’amore per il Nebbiolo e per i terroir dove, con spirito di servizio, si producono vini a base Nebbiolo, pronunciate da Eugenio Arlunno, presidente del Consorzio tutela Nebbioli Alto Piemonte, che ha salutato il “popolo del Nebbiolo” mobilitandolo quasi perché non diventi un vitigno globalizzato, e poi da Massimo Martinelli, storico vigneron, con i baffi bianchi, di La Morra, che ha parlato del suo “colpo di fulmine” per i grappoli di Nebbiolo, testimoniando che “ci si può innamorare di un vitigno”.
Penso poi a Teobaldo Cappellano, che ha parlato cuore in mano, con la consueta dolcezza da artista, come produttore di Nebiolo (“con una b sola, perché è più dolce”), richiamandoci a riscoprire le emozioni e l’edonismo del vino e ricordando, ai distratti, un’evidenza, e cioè che il colore del Barolo (quel “monumento”, ancora secondo Martinelli, “che come tale va rispettato”), è il colore del Barolo e basta.
Continuo a ripensare, quasi commosso, all’emozionante richiamo alla “bellezza” e alla nobiltà del Nebbiolo, che ci è arrivato non da un produttore italiano, ma da Chrystal Clifton della Palmina Wines, deliziosa, giovane produttrice di Santa Barbara in California, dove lei e suo marito cercano il loro genius loci per trasmettere il fascino di quest’uva e raccontarne il carattere agli appassionati di vino californiani.
E poi penso all’amico e collega Sandro Sangiorgi, che parlando di “vino nutrimento dello spirito” e ammonendo a rispettare “l’essenza e l’anima” del Nebbiolo, il “vitigno più appassionante in circolazione”, gli ha dichiarato il suo “amore completo e totale”, in un percorso senza possibilità di ritorno. E di ripensamenti.
Quindi, ancora, l’entusiasmo per il Nebbiolo sardo, anzi, l’orgoglio, testimoniato dal presidente della Confraternita del Nebbiolo di Luras, il simpatico Gian Giuseppe Cabras, e l’omaggio di quel galantuomo che é Giacomo Oddero al Nebbiolo “forte messaggero della viticoltura piemontese e albese in particolare. Vitigno di pace che ha bisogno di un mercato pulito per affermarsi”.
Ricordo benissimo, mi sembra di risentire il suono delle loro parole, quel sentimento forte di appartenenza, la fierezza di avere la fortuna e l’onere di confrontarsi con quell’uva.
Ma poi, con altrettanta chiarezza, ma con intatto stupore, ricordo l’intervento di Giorgio Pelissero, produttore di Barbaresco, secondo cui "pensare di essere al centro del mondo é sbagliatissimo" e oggi "si può essere competitivi solo in due modi: comunicando la qualità e controllando i prezzi. Ci sono due modi diversi di proporsi sul mercato. Il primo (product oriented) concettualmente superato da tempo, é quello di fare un prodotto con determinate caratteristiche perché mi piace o perché ho già una linea simile di produzione. Il secondo (market oriented) é quello di verificare cosa chiede il mercato e produrlo cercando di ridurre al massimo i costi. Questa visione é stata necessaria per far fronte all’evoluzione del consumatore e alla crescita del numero di competitors, ma non é applicabile al 100% in aziende che hanno fra i propri plus la tipicità. E meno male, altrimenti si perde l’identità di un territorio, quindi il pregio portante". Lasciamo "che ogni produttore costruisca come meglio crede il suo vino", ha poi concluso il giovane produttore di Barbaresco.
E con tanta incredulità e una forma d’imbarazzo che mi attanaglia ancora, ricordo l’intervento, quasi una forma di sofferta confessione ad alta voce, del giovane produttore valtellinese Marco Fay, splendidi vigneti nell’areale di San Giacomo di Teglio, studi a San Michele Adige e dichiarate influenze da parte di quella Langa new wave che pretendeva di rivoluzionare il Barolo, con i risultati che ben conosciamo, che raccontava il suo sofferto rapporto di odio e amore per il Nebbiolo, visto come…“nemico”.
Scurdammoce ‘o passato…
Ricordo la sua “sfida contro il vecchio, cui siamo ancora legati, purtroppo, inteso come approssimazione e ostacolo verso ogni cambiamento”, la sua scoperta del Pinot nero “il primo vino fine che ho bevuto”, la “consapevolezza delle potenzialità del clima della Valtellina” avuta non trovandosi a casa, tra le sue montagne, ma durante un viaggio in Argentina, e l’enunciazione della sua “grande scommessa”, come l’ha definita, consistente nel “capire dove siamo e nello scordarci il passato”.
Sentimenti diversi, difficili da capire, ma legittimi, nei confronti di quell’uva la cui identità e la cui forza fa tremare i polsi e presuppone, da parte di chi abbia la ventura di confrontarsi con lei, equilibrio, forza d’animo, nervi saldi ed idee chiare.
A Marco Fay e a tutti questi messaggi, di tono discordante, inviati al Nebbiolo, ho poi pensato in momenti successivi, dopo Nebbiolo Grapes.
Dapprima percorrendo un vigneto in fortissima pendenza a Donnas, in Valle d’Aosta e parlando con un anziano vigneron che vi lavorava e poi, la settimana scorsa, quando in Valtellina ho visitato una serie di vigneti, sempre di Nebbiolo, ça va sans dire, della piccola area, solo 25 ettari complessivi, della sottozona della Maroggia, sopra Berbenno, area dalla storica vocazione viticola, decentrata rispetto al fulcro dell’area vitata valtellinese, che ha subito nel corso di questi ultimi decenni l’isolamento ambientale e quello culturale, tanto da rischiare di scomparire quale entità enologica della valle.
Ho pensato al giovane Fay e al suo singolare odio-amore per il Nebbiolo, osservando con quale entusiasmo alcuni anziani viticoltori, che rappresentano quel passato che Fay rifiuta e da cui prende risolutamente, quasi con orrore o con rabbia, le distanze, si occupino amorevolmente della manutenzione di quei vigneti e cerchino di recuperarne altri, che in passato erano stati attivi, strappandoli letteralmente alla boscaglia per riportarli in vita.
E alla sua dichiarazione di sfida contro il vecchio non ho potuto non pensare, sorridendo, mentre su in alto, ai circa 500 metri della contrada Piasci, dove i filari sono disposti a ritocchino secondo linee di massima pendenza, perpendicolarmente all’orientamento della valle, ho parlato con alcuni tenaci e testardi vignaioli passatisti aderenti a quel Consorzio Produttori del Vino Maroggia che ha sottratto i vini della Maroggia all’oblio e li ha restituiti alla viva realtà produttiva.
Gente anziana, ma ancora con tante cose da dire e da insegnare, a chi abbia la pazienza e l’intelligenza e soprattutto l’umiltà di ascoltarli.
Uomini dalle mani callose come, mi piace citarli, Fermo Forno, oppure Lino Gusmerini, il cui ruspante, autenticissimo Rosso, appena cavato dalla botte, da una semplice cantina nella roccia, ha letteralmente stupefatto e commosso, per quanto era buono e vero e intimamente nebbioloso e valtellinese (altro che imbevile vino del contadino!), sia me che Elia Bolandrini, amica sommelier tiranese che mi accompagnava, ed il presidente della cantina di Maroggia Matteo Tarotelli, ben felici, noi tutti, che personaggi del genere esistano ancora. E che onorino, con la loro fatica e con il loro spirito di servizio, un’antica tradizione vitivinicola che si perpetua nel tempo.
C’è modo e modo di rapportarsi al Nebbiolo e di “viverlo” dunque, purché lo si ami e lo si rispetti.
C’è modo e modo anche di vivere il proprio tempo e di conferire, a quel che si fa, tutti i significati, i sogni, le ambizioni, gli spazi per le proprie affermazioni, che si desiderano.
Ma nel rapportarsi al Nebbiolo, come in qualsiasi altra occasione dell’umano vivere, occorre ricordarsi, come ha ben detto Sangiorgi ad Alba, che “negli errori del passato, se errori sono stati, ci siamo anche noi e non possiamo ignorarlo”.
Ma per andare avanti, per imporre un proprio stile ed una propria identità, per essere credibili, bisogna tener conto del passato, anche di quegli uomini che hanno tenuto duro e onorato il Nebbiolo ed i vini che il Nebbiolo esprime, quando difendere quei vini era difficile, perché non erano ancora diventati “di moda” come oggi e non se li filava nessuno…
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile;
non so, ma è proprio così e mi tormento
Catullo carme 85